30/06/2025
“HAI PROPRIO LE MANI DA PIANISTA!”
IL MIO IO POSTADOLESCENTE E IL TRANSFEMMINISMO
Non studiate antropologia. Mai. Sarete portati a guardare il mondo umano come un etologo guarda gli animali, ricercando archetipi comportamentali ancestrali… e complicando a dismisura le relazioni.
Ma tutto diventa divertente. Assai. Anche ripercorrere le storie all’indietro.
Diventano assai chiari ad un certo punto certi nostri comportamenti, certi modi di fare e, soprattutto, certe scelte amorose.
Pare che tra le caratteristiche alla base delle regole dell’attrazione, uno degli elementi più interessanti del fenotipo femminile siano i capelli ricci.
I modelli della “femmina attraente” proposti dai media spaziano dalla “strega mora e riccia” a Lady Oscar (giusto per scavare nella memoria). Ma vogliamo analizzare le “donne per eccellenza”, le modelline di Manara, fonte di tantissimi spasmi da ragazzini e da furtive letture da Feltrinelli per non comprare i costosissimi albi illustrati dei prolifico dispensatore di femmine ammiccanti?
Sì, perché, a volerla dire tutta, il Maestro non si limita al fenotipo, all’esteriorità: labbra carnose, lentiggini, capelli ricci svolazzanti… ma, ovviamente, a pose intriganti, abitini microscopici e grandissima disinibizione.
Del resto, deve vendere. E vende. E pure tanto.
Però…
Però c’è da dire che, ad una attenta analisi, non fa altro che proporre la summa degli archetipi fisici e culturali della “donna affascinante”.
In due parole, la gattamorta.
E, c’è ancora da dire che, nonostante tutta la sua evoluzione culturale, l’uomo, non l’essere umano, ma proprio l’uomo, il maschio, il portatore quello sfigatissimo cromosoma Y, alla fine cede al modello.
Quanti ne ho visti sprecarsi in apologie della bellezza, dell’uguaglianza, del pensiero più raffinato… e poi perdersi dietro alla riccioluta di turno, con fare fascinoso e misterioso e, degno delle più bieche storie sulla fascinazione del seicento, finire vittima strisciante, zerbino succube dei di lei più sordidi desideri, dal diventare seguace di vari e sconosciuti culti orientali, collezionare conchiglie o praticare misteriose pratiche di meditazione, con la vera unica magia di vedere volatilizzarsi fasci di contanti.
Ecco. Io non sono (stato) da meno.
Da giovane, tanto giovane, studiavo filosofia, leggevo poesie, scrivevo, componevo. E scattavo foto.
Una sera ad una mostra di arte contemporanea - Dio ce ne salvi, spesso e volentieri - mi imbatto anch’io nell’archetipo.
Era bellissima.
Quegli occhi enormi, le labbra carnose. La pelle abbronzata e, ovviamente, una selva di ricci dai riflessi rossi.
Ed era un’artista. Dipingeva quadri materici.
Ci presentarono amici comuni… e le scattai delle foto con la mia fedelissima Pentax e le pellicole bianconero ad alta sensibilità. In quei tempi (verso la fine del Pleistocene, in epoca fotografica) la fotografia era ancora un metodo d’approccio efficace.
Qualche giorno dopo in camera buia apparvero sotto gli acidi i suoi occhioni e i suoi riccioloni.
E nulla, iniziammo a frequentarci. Lei era più grande di me di qualche anno, tempo notevole quando tu di anni ne hai diciannove e lei ne ha ventotto.
Lunghe passeggiate sul mare, in bicicletta, che finivano con un bagno tra gli scogli e, ovviamente, e si leggeva Borges insieme.
Oppure la mia sgangherata Uno da universitario si arrampicava in meravigliosi antri della verde Murgia.
Ma ci si frequentava in modo strano. Ci si vedeva la mattina, il pomeriggio. Ma quasi mai di sera.
Poi mi disse perché.
Di sera doveva frequentare misteriosi personaggi con grosse Mercedes e sopra i cinquanta che le promettevano esposizioni in gallerie e vendite strepitose.
Strepitose.
Doveva esserle andata “bene” la serata precedente, perché quel pomeriggio le stavo suonando una cosa in cui ci avevo messo un tantino di impegno… e lei mi disse “certo… si vede… hai proprio le mani da pianista!”.
Mani che non ho, ovviamente.
E fu l’ultima volta che ci vedemmo.
Qualche anno dopo passeggiavo con amici e fidanzata nel quartiere Liberty di Bari.
Lì, tra le volute meravigliose del foyer del Kursaal, quando era ancora il Caffè del Teatro, mi sentii osservato.
Erano i suoi occhi, dall’altra parte.
Seduta nell’angolo, distratta dalla conversazione di altri sessantenni.
Il tempo era passato. Per tutti.
E c’è chi viene baciato da Eros e non lo sa. Poi, magari, Eros va via.
Poi Eros lo incontri lì, in una mostra, su un vaso greco, tra le righe di un capitolo di un trattato di antropologia.
Lui è sempre Eros, l’alato che dà le ali.
E gli uomini (e le donne) se lo lasciano - spesso - scappare.
Non c’è retorica, né triste legge morale: non ci sono vinti o vincitori. Oddio, gli uomini davanti all’Amore perdono sempre, quando pensano di cavalcare la tigre.
Perché Eros è figlio di Penìa e Poros, di Povertà e Espediente. Perché ama e anela bellezza, e fa di tutto per possederla e, come tale, è incontrollabile.
Quello te lo insegna l’antropologia o, dopo un po’, l’esperienza.
Solo che lui, Eros, è l’archetipo, ed è eterno. Noi, meno.
Molto.
Di gattamorte, streghe, masciare, archetipi e, soprattutto, di femminismo intersezionale si parla ne La Città delle Donne, domenica 6 alle 10.
_foto Le mie mani da pianista
_audio The Heart Ask Pleasure First, Michael Nyman