Giovanni Forgione - Antiche immagini

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Raccolta di illustrazioni, opere d'arte e video-foto della Campania per rivivere, attraverso testimonianze del passato, la nostra storia e le nostre tradizioni.

1890  Solopaca, Ponte Maria CristinaIl primo ponte fu inaugurato il 5 aprile 1835 alla presenza del Re Ferdinando II del...
23/06/2025

1890 Solopaca, Ponte Maria Cristina

Il primo ponte fu inaugurato il 5 aprile 1835 alla presenza del Re Ferdinando II delle Due Sicilie e della sua prima moglie Maria Cristina di Savoia (alla quale tuttora è intitolato).

Il ponte venne fornito anche di un custode che impediva il passaggio di mezzi superiori alle 2,5 tonnellate. Nel 1852 a seguito di una alluvione il ponte subì gravi danni ma venne prontamente riparato.

Il 4 ottobre 1943 i tedeschi in risalita fecero saltare l'antico ponte pensile provocando anche la morte di diverse persone.

La ricostruzione avvenne nello stesso sito della precedente architettura ma con una struttura completamente diversa ed in cemento armato. Il cantiere della Ferrobeton iniziò nella primavera del 1946 e terminò nell'autunno del 1947 quando venne collaudato ed inaugurato.

1860   Sorrento, Piazza TassoPonte di porta Maggiore (oggi inesistente) che univa il Borgo con il largo del Castello. Il...
18/06/2025

1860 Sorrento, Piazza Tasso

Ponte di porta Maggiore (oggi inesistente) che univa il Borgo con il largo del Castello. Il ponte attraversava il vallone dei Mulini.

La costruzione di Piazza Tasso avvenne riempiendo parte della valle; le attività del vallone smisero di funzionare ad inizio del Novecento per mancanza di acqua e perché, bloccato lo sbocco sul mare, aumentò notevolmente l’umidità della zona che diventò invivibile. Del mulino e della segheria restano solo ruderi coperti dalla vegetazione.

Il vallone dei Mulini di Sorrento è uno dei cinque che segnavano i confini naturali di alcuni paesi della pen*sola sorrentina.

Scrive Michelangelo Gargiulo:

La trasformazione di Sorrento iniziò il 29 settembre 1840 quando solo un voto si oppose alla demolizione del castello 'scomodo' che era in piedi dal 1459.

Il Castello Aragonese fu ingrandito nel 1506, danneggiato nel 1648 e nel 1799 fu parzialmente distrutto dalla Armata Francese quando Sorrento sostenne la monarchia Borbonica durante la Repubblica Partenopea.

Fu abbattuto nel 1843 e nel 1866 le autorità civili ebbero un'idea piuttosto bizzarra: che Sorrento non era abbastanza elegante o gentile per gli aristocratici che affluivano in città durante il Grand Tour.

Le antiche porte della città, Porta Maggiore e Porta di Massa all'estremità di via San Cesareo insieme alla maggior parte del muro difensivo orientale, furono demolite e le macerie utilizzate per riempire il 'Vallone di Mulini' a sostegno della nuova Piazza Tasso.

1945  Napoli, via RomaDal 18 ottobre del 1870 al 1980 la strada si è chiamata via Roma in onore della neocapitale del Re...
03/06/2025

1945 Napoli, via Roma

Dal 18 ottobre del 1870 al 1980 la strada si è chiamata via Roma in onore della neocapitale del Regno d’Italia. La denominazione via Roma per indicare via Toledo è però in parte sopravvissuta nell'uso popolare. Oggi è via Toledo.

La Liberazione a Napoli sembrò aprire una nuova era: l'afflusso di denaro dalle casse degli Alleati fu però un abbaglio, che lasciò la città allo sbando, scopriamo perché attraverso l'articolo "L'illusione di Napoli" di Gigi Fiore, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Nel 1945 Napoli era già libera da oltre un anno. Le prime jeep delle King's Dragoon Guards inglesi erano entrate in piazza Garibaldi alle 9:30 del 1° ottobre 1943. Da allora, la città si era trasformata in una caotica Babilonia.

Era il porto principale per lo sbarco di uomini e mezzi alleati da inviare a Cassino, dove era in corso la madre di tutte le battaglie sul fronte italiano. Napoli divenne il regno di Bengodi per quelle truppe, la retrovia degli svaghi, del riposo, del ricovero di feriti.

1830   Porto di NapoliVeduta della Certosa di San Martino e della Fortezza di Sant'Elmo con lanterna dal molo a NapoliTe...
30/05/2025

1830 Porto di Napoli

Veduta della Certosa di San Martino e della Fortezza di Sant'Elmo con lanterna dal molo a Napoli

Tela di François Vervloet

Vervloet è stato soprattutto un paesaggista, ma ha spesso rappresentato, oltre alle vedute, sagrestie, interni di chiese, monumenti. Il suo stile, che, riconoscibile fin dalla giovinezza, pone la prospettiva atmosferica al centro del dipinto, rendendola tenue attraverso la stesura di una delicata gamma cromatica, ebbe una notevole influenza sugli sviluppi della Scuola di Posillipo.

Suo padre, Frans Vervloet I, era anch'egli un pittore, professore all'Accademia di Mechelen; fu lui ad insegnare ai figli i rudimenti dell'arte. Nel 1822 il giovane compie un viaggio in Italia, risiedendo soprattutto a Roma ma visitando anche la Campania. A partire dal 1824, si stabilisce a Napoli, dove eserciterà la sua attività.

Nel 1832 si reca a Venezia rimanendone affascinato; Venezia e Napoli resteranno per tutta la sua vita le città da lui più amate. Viaggia molto e ritrae nelle sue opere, oltre Venezia e Napoli, Palermo, Livorno, Costantinopoli, Gaeta, e diverse zone della Puglia. Nel 1861 si stabilisce definitivamente a Venezia dove vivrà fino all'età di 77 anni.

Napoli, l’acquaiolo e ’a banc' 'ell’acqua“Acquaiuo’ comm’è l’acqua?” “E’ fresc’ comm’ 'a neve!”Bevete TELESE, cura e dis...
28/05/2025

Napoli, l’acquaiolo e ’a banc' 'ell’acqua

“Acquaiuo’ comm’è l’acqua?”
“E’ fresc’ comm’ 'a neve!”

Bevete TELESE, cura e disseta.
Bevete Coca Cola ghiacciata.
Bevi NERI ne-ri bevi

Scrive Francesco Improta: "Alla ricerca del tempo perduto, direbbe Proust. Sono tappe di un viaggio a ritroso nel tempo che aumenta la nostalgia di chi, come me, vive ormai lontano da Napoli.

Ricordo parlando di acquafrescai, il chiosco di Antignano provvisto di mummarelle e acqua ferrata da bere "a cosce aperte" per evitare che la limonata con l'aggiunta di una punta di bicarbonato non sporcasse, tracimando, gli abiti.

Accanto al chiosco c'era poi un "carnacottaro" che vendeva "o musso e o piede e puorco" (mi auguro di averlo scritto bene, altrimenti il Maestro Claudio Mattone, mio caro amico, mi tira le orecchie.) Buona giornata e grazie".

Le “acque fresche” dal sottosuolo di Napoli
Un tempo, tra il centro storico e Borgo Santa Lucia, dal sottosuolo sgorgavano acque minerali dalle diverse caratteristiche, vendute in appositi “bancarielli” e chioschetti presso le fonti. Spesso nelle “mummarelle”, piccole anfore di terracotta che avevano il pregio di mantenere l’acqua a lungo fresca. Quella suffregna (ovvero sulfurea) e quella ferrata erano le più famose e ricercate, e tipicamente si servivano al bicchiere con un po’ di succo di limone fresco.

La granita prima dell’invenzione della granita
Gli acquafrescai vendevano inoltre la "rattatella", progenitrice della granita moderna. Si trattava infatti di ghiaccio tritato al momento da un blocco avvolto in teli di lino, grazie a uno strumento simile a una grattugia. Da servire poi direttamente nelle mani o su foglie di fico o limone, aromatizzato con succhi e pezzi di frutta fresca: ovviamente limone oppure arance, amarene e anguria. Con il “risanamento” urbanistico di fine ‘800 prima e con le norme di contenimento dell’epidemia di colera negli anni ’70 poi, le fonti sono state del tutto cancellate. Ma non il loro ricordo e nemmeno alcuni degli storici chioschi. Questi, con il tempo e l’ingegno, si sono trasformati in punti vendita di spremute e granite, tramandati di generazione in generazione.

Gli acquafrescai più longevi di Napoli
Il banco di Piazza Trieste e Trento risale al 1836. Con sorriso accattivante, orgoglio e maestria, a preparare la limonata — da bere rigorosamente a cosce aperte, spiegheremo il perché — e la granita di limone è Vincenzo Masiello. Spesso in compagnia del padre, per tutti “Cocò”, spera di poter tramandare l’attività alla sua bambina, che oggi ha 7 anni e quando può gli fa compagnia. Non molto lontano, a Via Chiaia e vicino al Teatro Sannazaro, dal 1902 c’è invece l’Oasi. Questo banco dell’acqua un tempo era gestito dalle “vecchierelle”, come tutti nel quartiere chiamavano le proprietarie che, circa 30 anni fa, hanno passato il testimone all’amico Claudio Di Dato, oggi coadiuvato dai figli.

Fonte testo: NapoliToday

1952 Capri, PiazzettaLa Piazzetta di Capri, conosciuta anche come Piazza Umberto I, era negli anni '50 il cuore pulsante...
21/05/2025

1952 Capri, Piazzetta

La Piazzetta di Capri, conosciuta anche come Piazza Umberto I, era negli anni '50 il cuore pulsante dell'isola, un punto di ritrovo per residenti e turisti, sia locali che internazionali.

Era il luogo ideale per ammirare i panorami mozzafiato, godersi un caffè o un aperitivo, e semplicemente immergersi nell'atmosfera unica dell'isola.

La Piazzetta era il fulcro della vita sociale dell'isola, un luogo dove le persone si incontravano per parlare, osservare la vita e godersi l'atmosfera.

L'isola di Capri era già una meta molto rinomata per i turisti e gli intellettuali di tutto il mondo, e la Piazzetta era il luogo perfetto per assaporare l'atmosfera dell'isola.

La Piazzetta era un luogo dove si respirava un'atmosfera unica, tra il profumo del mare, il suono delle onde e il caldo sole del Mediterraneo.

1952  Capri, piazzetta Umberto IScrive Giovanni Di Martino:Nella foto la signora Natalia Tizzano ed il figlio Pinuccio.S...
13/05/2025

1952 Capri, piazzetta Umberto I

Scrive Giovanni Di Martino:

Nella foto la signora Natalia Tizzano ed il figlio Pinuccio.
Sono diretti al chiosco nel parco Augusto. Il chiosco, è ancora oggi nello stesso posto di 70 fa gestito dai figli di Pinuccio ancora in vita.

Un ricordo che ancora è fisso nella mia mente è stata la prima Coca-Cola bevuta, offertami da dei marinai americani di colore che la comprarono dalla signora Natalia Tizzano.

Anni ‘60  Cervinara, piazza Regina ElenaAlle spalle del fotografo il Palazzo Marchesale Caracciolo, residenza gentilizia...
03/05/2025

Anni ‘60 Cervinara, piazza Regina Elena

Alle spalle del fotografo il Palazzo Marchesale Caracciolo, residenza gentilizia dell'omonima famiglia che domina, con i suoi 90 metri di lunghezza, la piazza circostante. L’embrione del Palazzo venne costruito nel 1581 da Giovanni Vincenzo Scalaleone, proprietario del feudo di Cervinara ed esponente di rilievo della nobiltà di toga napoletana.

Nel 1631 la residenza, passata di proprietà alla famiglia Caracciolo, assunse l’attuale aspetto di edificio rinascimentale. L’artefice di questa ristrutturazione fu Francesco Caracciolo, marchese di Cervinara e Mottola, che dotò la struttura di una serie di elementi decorativi abbastanza inconsueti che risultano, tuttora, ammantati di un indecifrabile alone di mistero.

Oggi il Palazzo Marchesale Caracciolo è adibito a location per celebrazioni matrimoniali. L'edificio storico si presenta con la sua caratterizzante pianta a C, conservando, nel corso delle varie epoche, la grande corte centrale e la splendida fontana in pietra realizzata per volere di Francesco Antonio Caracciolo probabilmente nel secolo XVIII.

Sullo sfondo della foto la chiesa di San Gennaro che fu edificata nel corso del 1400 e fu ampliata nel 1627 sotto don Cesare Ragucci, finché l’arciprete Pio Piccolo, sul finire del 1700, si elevò il titolo in quello di abate curato, con giurisdizione su più di un paese.

La facciata della Collegiata di San Gennaro, attigua ad un campanile a finestroni ad arco, è del tipo a capanna con due ali laterali posteriori ed un portale di pietra del 1581, con il frontone spezzato da una nicchia in cui è custodita una piccola statua di San Gennaro, due finestre archivolate e due portoni laterali che danno verso l’interno a tre navate.

E’ ritenuto il più antico luogo di culto, dove è possibile ammirare un coro ligneo del 1500, l’ex ca****la privata dei marchesi Caracciolo.

Dietro la chiesa di San Gennaro parte il “Sentiero dei Carbonai” CAI 229 che collega al Monte Trave di Fuoco e alla ricca rete dei sentieri del Partenio.

Fonte foto: cartolina postale
Fonte testo: Sistema Irpinia e Pro Loco Cervinara

1933  Pompei, campanile del santuarioPontificio santuario della Beata Vergine del Santo Rosario È uno dei santuari maria...
26/04/2025

1933 Pompei, campanile del santuario

Pontificio santuario della Beata Vergine del Santo Rosario
È uno dei santuari mariani più visitati d'Italia. Numerosi personaggi e santi vi hanno fatto visita tra cui san Ludovico da Casoria, san Luigi Guanella, san Giuseppe Moscati, san Giuseppe Marello, san Luigi Orione, san Leonardo Murialdo, san Padre Pio da Pietrelcina, santa Francesca Saverio Cabrini e san Massimiliano Maria Kolbe. Tra i papi che hanno visitato il santuario vi sono san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco. Il santuario ha la dignità di basilica pontificia.

Il campanile è caratterizzato da cinque ordini sovrapposti, all'ultimo dei quali è presente una terrazza con balaustra, raggiungibile mediante un ascensore interno, visitabile tutti i giorni e dalla quale è possibile avere una vista panoramica che passa dalle isole del golfo fino all'Appennino, agli Scavi, al Vesuvio e alla Valle del Sarno.

La posa della prima pietra del campanile avvenne il 12 maggio 1912. Dopo tredici anni, il 24 maggio 1925 avvenne l'inaugurazione con una solenne cerimonia in presenza di Bartolo Longo (che allora aveva 84 anni). Il campanile sorge su una palizzata in cemento armato di una superficie di circa 400 m².

Architettonicamente la struttura è costituita da tre parti: l'esterna, decorata di granito grigio; l'interna di mattoni pressati; una terza centrale composta da un'armatura a castello di travi metalliche che forma una torre di collegamento, dal peso di 100 000 kg, che sostiene una scala in ferro che conduce fino alla sommità. Il campanile è visibile anche a chilometri di distanza in quanto è alto ben 80 metri e presenta al vertice una croce di bronzo alta 7 metri (illuminata di notte), opera dell'architetto Aristide Leonori.

Storia del lavori agli Scavi di Pompei

I primi scavi nella zona dell'antica Pompei si sono svolti nel 1748, a seguito della scoperta di Ercolano, per volere della dinastia borbonica.

All'inizio dell'800, a seguito di disordini di natura politica, i lavori per gli scavi vengono sospesi e un nuovo impulso sarà dato solo dall'arrivo di Gioacchino Murat: è proprio la moglie di questi a cominciare un'opera di pubblicizzazione del sito in tutta Europa.

L'ultimo periodo di dominazione borbonica è segnato da una stasi nell'attività di scavo; questa viene ripresa solamente con l'unità d'Italia: sono, infatti, archeologi come Giuseppe Fiorelli, Vittorio Spinazzola e Amedeo Maiuri a riportare alla luce la città nella sua quasi totale interezza, poi la continua mancanza di fondi porta per lo più alla conservazione del patrimonio recuperato che a nuovi a scavi.

I bombardamenti della seconda guerra mondiale provocano, in alcuni casi, ingenti danni alle rovine, mentre nel 1997, l'area archeologica, insieme a quella di Ercolano e Oplonti, viene dichiarata dall'UNESCO patrimonio dell'umanità. Nel 2012 parte il Grande Progetto Pompei, che mira al restauro e alla messa in sicurezza del sito.

1909 Benevento, Torre della CatenaLa torre, a base poligonale e di forma piramidale, era un avamposto difensivo che guar...
18/04/2025

1909 Benevento, Torre della Catena

La torre, a base poligonale e di forma piramidale, era un avamposto difensivo che guardava verso il Ponte Leproso e il fiume Sabato, in prossimità di Port'Arsa. Gli spigoli, fuori squadro, sono costituiti da pietre angolari di calcare locale.

La cinta muraria di Benevento è una delle principali vestigia longobarde della città e costituisce un raro esempio di cinta urbana altomedievale ancora in discreto stato di conservazione.

Ne rimangono oggi alcuni tratti consistenti: uno, che costeggia la strada che prende nome da questa torre (via Torre della Catena), che delimita a sud il quartiere medievale del Triggio.

Un altro tratto, del quale segue l'andamento il viale dei Rettori, costituisce la parte nord del perimetro del Piano di Corte; mentre l'ultimo è l'orlo meridionale della collina del centro storico, in corrispondenza di uno strapiombo sotto il quale si estendono i nuovi quartieri di Benevento.

La prima porzione delle mura fu costruita fra il VI e il VII secolo e interessava solo la riva del fiume Calore, a nord della città. Arechi II nell'VIII secolo invece fortificò anche le sponde del Sabato, includendo edifici romani superstiti come il Teatro. Ulteriori ampliamenti, ma di minore importanza, si ebbero nel 926.

1920 Benevento, Pastificio RummoIl primo maggio 1920 i lavoratori del mulino e della pasta Rummo posano per una foto di ...
11/04/2025

1920 Benevento, Pastificio Rummo

Il primo maggio 1920 i lavoratori del mulino e della pasta Rummo posano per una foto di gruppo. Oggi la storia dell'azienda è ancora costruita sulla gente di Benevento. 74 anni prima di questa foto, nel 1846 Antonio Rummo iniziò a sviluppare l’antica arte del grano a Benevento.

Così una famiglia tiene le mani in pasta da 175 anni.
di Enrico Mannucci (Corriere.it)

«Il primo ingrediente? La nostra storia», recita il dépliant che presenta i 140 formati della pasta Rummo. È vero, verissimo. Però anche nelle disgrazie. Perché nella storia dell’opificio nato sulla riva destra del Sabato, l’acqua, elemento chiave per la qualità di maccheroni e simili, ha parte importante nelle origini e nella fortuna, ma anche nell’esondazione che, un anno fa, ha messo in ginocchio l’economia cittadina e ha invaso di fango e detriti lo stabilimento.

Sono due i fiumi che traversano Benevento, il Sabato e il Calore. E, fin dal Cinquecento, opere idrauliche di canalizzazione ne avevano indirizzato le acque in modo da alimentare un gran numero di mulini (ce n’era uno in ogni casa, secondo un piccolo saggio di Ennio De Simone Le origini di un’azienda familiare: il Molino e Pastificio Rummo, Franco Angeli).

È all’inizio dell’Ottocento che si trova la prima traccia di un Rummo nei documenti cittadini: Agnello, un “mastro ammolatore” dedito anche alla scalpellatura delle mole in pietra per i mulini cittadini. Due dei suoi cinque figli, Angelo e Francesco, del resto, prendono subito la strada di panettieri, rispettivamente nel 1846 e nel 1851.

Un altro fratello, Antonio, continua invece il mestiere del padre, ma da lui discende il ramo familiare che, più avanti, creerà il Pastificio. Infatti, un suo figlio e un suo nipote – Cosimo e Antonio – avviano, e con veloce successo, l’attività di mugnai producendo anche pasta fresca.

Anni '20 Montesarchio Montesarchiodi Gino Di VicoIl nome Montesarchio, secondo alcuni studiosi, è legato al culto di Erc...
06/04/2025

Anni '20 Montesarchio

Montesarchio
di Gino Di Vico

Il nome Montesarchio, secondo alcuni studiosi, è legato al culto di Ercole: la leggenda narra che l’eroe greco sia vissuto in queste zone ed abbia ucciso il Leone in una grotta del monte Taburno nelle famose 12 fatiche, da cui Il nome Mons Arculi o Mons Herculis.

La presenza di una torre cilindrica sulla sommità della collina che sovrasta la cittadina suggerisce l’ipotesi che il toponimo derivi da Mons Arcis. L’ipotesi ritenuta più attendibile vuole che il nome si riferisca a sarculum (sarchio), uno strumento agricolo usato per smuovere la terra la cui forma è ravvisata nell’aspetto del monte.

L’odierno abitato occupa il sito dell’antica Caudium, importante centro sannita preromano; il borgo antico risale alla dominazione longobarda.

Nel corso del tempo la cittadina è stata posseduta da diversi Signori: Manfredi di Svevia la concesse a Giacomo D’Acquino, Carlo I d’Angiò la passò a Giovanni della Leonessa, Ferrante d’Aragona la vendette a Carlo Carafa.

L’ultimo signore e feudatario fu Avalos d’Acquino, in seguito passata ai Borbone, Ferdinando II trasformò il castello e la torre in prigione di stato, vi furono rinchiusi i patrioti napoletani Pironti, Nisco e Poerio che condannato a 24 anni di ferri, ne trascorse 10 nei bagni penali di Montesarchio.

Un luogo conosciuto che ricorda la guerra goto-bizantina e la Valle dei Greci dove si racconta si sia accampato Attila in una delle sue scorrerie come flagello di Dio.

Un altro luogo, degno di nota, è la località Marruffi dove sorgeva una chiesetta in onore di San Palerio: Palerio nel IX secolo fu vescovo di Telesia, a seguito delle invasioni dei saraceni, questi fuggì da Telesia rifugiandosi sulle montagne irpine.

Nel 1712, nel territorio di San Martino Valle Caudina furono rinvenute due lapidi all’interno di una chiesa diroccata da alcuni muratori che cercavano materiale per fabbricare una casa di campagna. Sulle lapidi vennero rinvenute delle epigrafi che ricordavano che in quel posto era stato seppellito S. Palerio vescovo di Telese insieme a S. Equizio suo compagno.

Nel luogo dove furono trovate le spoglie dei due religiosi, venne edificata una chiesetta dedicata ai due santi dopo una lunga contesa tra i sammartinesi ed i montesarchiesi per dove si dovesse realizzare la chiesa.

Non addivenendo ad un accordo sul luogo dove erigere il tempio, i due contendenti decisero di caricare su di un carro, trainato da buoi, le spoglie dei santi, stabilendo che la direzione presa da questi fosse quella in cui si sarebbe realizzata la chiesetta: i buoi si mossero in direzione S.Martino mettendo fine alla disputa.

Il 5 novembre 1797, il vescovo Lupoli ricevette dall’arcivescovo di Benevento Francesco Maria Banditi una clavicola di ciascuno dei due santi che fece custodire in appositi reliquiari nella Cattedrale di Cerreto Sannita. I reliquiari vennero consacrati solennemente il 5 novembre 1797 a Cerreto Sannita; accadde che durante la cerimonia una donna partorì un bambino che fu battezzato con il nome di “Palerio”.

Il 15 giugno del 1990, una rappresentanza della comunità di San Martino Valle Caudina donò alla diocesi di Cerreto Sannita nuove reliquie dei due santi che sono esposte accanto alla statua di S. Palerio nella ca****la del Crocifisso della Cattedrale.

Fonte immagine: rivista Touring Club del 1936

Indirizzo

Via Vomero
Telese
82037

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